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A Cortina arriva la Starlight Room https://www.design-miss.com/cortina-arriva-la-starlight-room/ Una stanza di vetro sotto il cielo delle #Dolomiti
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Trilogia di New York
Scheda informativa
Titolo completo: Trilogia di New York: Città di Vetro, Fantasmi, La Stanza Chiusa
Titolo originale: The New York Trilogy: City of Glass, Ghosts, The Locked Room
Autore: Paul Auster
Editore: Einaudi
Prima edizione: Supercoralli 1996
Pagine: 314
Prezzo: € 12,50
Trama
In una città stravolta e allucinata, in cui ogni cosa si confonde e chiunque è sostituibile, i protagonisti di queste storie conducono ciascuno a un'inchiesta misteriosa e dall'esito imprevedibile. Tutto può cominciare con una telefonata nel cuore della notte, come nel caso di Daniel Quinn (Città di Vetro), autore di romanzi polizieschi che accetta la sfida che gli si presenta e si cala nei panni di uno sconosciuto detective. Ma può anche capitare che chi debba pedinare si senta a sua volta pedinato (Fantasmi); o, ancora, che ci sia qualcuno che s'immedesima a tal punto nella vita di un amico da sposarne la vedova e adottarne il figlio (La Stanza Chiusa).
Recensione
“Trilogia” implica che un libro sia diviso in tre “capitoli” di un'unica storia. Ma quando ti approcci a Trilogia di New York sembra che Paul Auster ti guidi in tre storie diverse, che sembrano non avere nulla a che fare l'una con l'altra, a parte il fatto che sono ambientate tutte e tre nella medesima città, New York, il medesimo nessun luogo in cui chiunque può ritrovarsi e perdersi all'infinito.
Lo sappiamo, ma non ci vogliamo credere, anche se i pezzi vanno piano piano a incastrarsi, vogliamo continuare a pensare che non ci sia un filo rosso tra le tre storie. Questo finché Paul Auster non ce lo sbatte in faccia, che sono anche tre storie che, in un modo o nell'altro, parlano anche di lui.
Sono tre detective-stories, ma la storia è una sola. Ed tutto così eccentrico e avvincente che, nonostante la seconda storia non abbia la classica divisione in capitoli, ti tiene incollato al libro. Vuoi saperne di più, sempre di più, anche se più vai avanti più ti senti confuso.
Valutazione
★★★★★ 5/5
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SHHH!!
Silenzio mi voglio rilassare..
Esiste un luogo che potrebbe farvi ricredere sugli effetti terapeutici del silenzio assoluto: si tratta della stanza anecoica degli Orfield Laboratories, in Minnesota, che nel 2008 è entrata del Guinness dei Primati con il titolo di luogo più silenzioso al mondo.
L’idea di passarci un po’ di tempo potrebbe sembrare rilassante, ma non lasciatevi ingannare: nessuno è mai riuscito a rimanerci per più di 45 minuti. Il motivo?
La stanza anecoica è talmente silenziosa che può portare alla follia in meno di un’ora.
La stanza del silenzio è composta da due camere costruite l’una nell’altra, realizzate con materiali fonoassorbenti e fonoisolanti che hanno la capacità di assorbire i suoni al 99%.
La camera più interna è isolata da uno strato in fibra di vetro spesso 1 metro e le sue pareti sono rivestite da una tappezzeria in schiuma sintetica.
Anche il pavimento è a prova di rumore tanto che camminandoci sopra tende a cedere leggermente in modo da attutire eventuali vibrazioni o fruscii.
Perché è impossibile resistere al suo interno?
Chi si trova nella stanza anecoica (che, come suggerisce il nome, non produce eco) diventa l’unica fonte di rumore; inizia a percepire il suono dei propri organi, il sangue che scorre nelle vene, il battito cardiaco, il gorgogliare dello stomaco. In pratica, vive un’esperienza extrasensoriale capace di far perdere sia l’equilibrio fisico che psichico.
Steve Orfield, il responsabile della struttura, spiega che a luci spente si sperimenta uno stato di deprivazione sensoriale totale che poco a poco fa perdere al cervello ogni riferimento. Per orientarci infatti noi usiamo anche i suoni, che ci forniscono equilibrio e facilitano i movimenti: la loro assenza produce un disorientamento tale da indurre claustrofobia, vomito, attacchi di panico e allucinazioni.
È quasi d’obbligo inoltre rimanere seduti, perché nella stanza stare in piedi e camminare diventa pressoché impossibile.
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Il paradiso sui tetti
Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda come il sole che nasce o che muore, e il vetro chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo. Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre, nel tepore dell’ultimo sonno: l’ombra sarà come il tepore. Empirà la stanza per la grande finestra un cielo più grande. Dalla scala salita un giorno per sempre non verranno più voci, né visi morti. Non sarà necessario lasciare il letto. Solo l’alba entrerà nella stanza vuota. Basterà la finestra a vestire ogni cosa di un chiarore tranquillo, quasi una luce. Poserà un’ombra scarna sul volto supino. I ricordi saranno dei grumi d’ombra appiattati così come vecchia brace nel camino. Il ricordo sarà la vampa che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
Cesare Pavese
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Grazie @hope-now-and-live per il tag
La mia casa dei sogni uhmm ho delle idee e sono quelle idee che per un motivo o per un altro non posso effettivamente realizzare nella mia casetta
Iniziamo dall'esterno vorrei che sul davanti ci fossero due pozzetti di terra dove piantare solo girasoli, mentre sul retro della casa un pozzetto lungo di terra usato come orto per coltivare le fragole, un po' come lo aveva mio nonno dietro casa...
Per quanto riguarda la tinta della casa va bene quella che ho ovvero una sfumatura di rosa accesa per l'esterno e per l'interno il bianco, anche se in alcune stanze avrei osato con qualche sfumatura tipo nella mia cameretta sull'arancio o fucsia non so, ma la rendo colorata con gli oggetti quindi va bene anche il bianco sulle pareti, solo in una stanza però e solo su una parete mi piacerebbe avere una serie di listelli in legno colorati come macchie di vernice, li avevo visti anni fa in un negozio ma non li ha più, quindi non ho nemmeno quella foto di preciso ma qualcosa che potrebbe comunque andare bene per la mia stanza degli hobby
La stanza degli hobby me la immagino un po' così
E con un lucernario che mi permette una vista cielo mozzafiato soprattutto di notte dove magari infilerei un telescopio per osservare le stelle ✨
E infine una stanza libreria così ma con gli sportelli in vetro per dare quel senso di vedo non vedo sui libri contenuti e la zona relax con i cuscini e la vista sull'esterno proprio come quella nella foto e con in sottofondo una melodia che proviene da un giradischi posizionato lì vicino 🎶
Sogna ragazza sogna XD
Taggo:
@laragazza-dalcuore-infranto-blog
@millilps
Fateci sognare con le vostre case da sogno 😊🏡
#pensieri per la testa#persa tra i miei pensieri#fotografia#immagini dal web#casa dei sogni#giochini Tumblr#sognare#sogni#casetta#idee#giuro non sono architetto
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Seeing you write in italian made me feel so proud of my studies for being able to understand it all lol. But now I'm really curious how a whole fanfic written in that language would be like coming from you! I know a lot of people hate writing this sort of content in their mother tongue (me included) but would you ever think about making a short piece anyway? It's obviously fine if not, I'm just curious is all, the foreign languages major in me wants to study the difference in your prose so bad
Not to play Sherlock Holmes, but I’m guessing you’re from the same general area of Europe—probably not Spain, so I’d bet on France, Belgium, Germany, or somewhere close by.
And that ties into my answer: I actually write poetry in Italian, mostly because English has some serious limitations. So, for fanfiction, I often have entire sections in my drafts written not just in Italian but in whatever language feels most natural at the moment. Then I have to hunt for the best translation to match the meaning.
I studied languages too, and I can tell you that Italian flows like water. The funny thing is, in my Ghost fanfiction, I had entire parts written not in Italian but in Latin.
But, hey, indulging you costs me nothing—what do you say?
(silco's office)
Lo studio era modesto, ma ricco al contempo: un vecchio grammofono d'ottone riproduceva distrattamente una melodia sommessa che aleggiava per la stanza, aggrappandosi alle tende e ai pennacchi del tappeto che, con i suoi decori dorati, faceva fieramente capolino da sotto la scrivania di massiccio legno intagliato a mano. La luce verdastra filtrava da una finestra di vetro e piombo scuro come il carbone, dall'intricato decoro raffinato, creando complicati giochi di luci che davano a quel luogo un aria a tratti surreale.
Eri nella stanza del demonio, e mai cosa fu stata più palese.
Eppure qualcosa, forse l'odore caldo del tabacco, o i giocosi scarabocchi azzurri e rosa che ricoprivano le superfici, sembravano rivelare la vera natura di quel posto: poco formale, a tratti amichevole, addirittura domestico. Se non avessi avuto la certezza che l'uomo seduto davanti a te non ti avrebbe ucciso sul colpo, ti saresti tolta la giacca e l'avresti abbandonata sul divanetto. Ma con la consapevolezza dell'esito che avrebbe portato quella tua stupida decisone, optasti invece di sederti composta sulla sedia davanti a lui.
"Signore."
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“skater at sunset” photo by Fabrizio Pece (tumblr | 500px | instagram)
Il sole stava già iniziando la sua lenta discesa dietro gli edifici di mattoni rossi e intonaco che costellavano il centro della città. Una luce dorata tingeva il cielo, facendo brillare le finestre dei grattacieli come pezzi di vetro spezzato. Jack, un uomo di mezza età dalle spalle curve e dallo sguardo stanco, si trascinava lungo le strade trafficate, cercando di raggiungere casa dopo una giornata di lavoro che sembrava non avere mai fine.
Mentre si avvicinava al suo appartamento, passò davanti a un negozio di dischi di seconda mano che aveva sempre ignorato. Qualcosa, quella sera, attirò la sua attenzione. Una copertina sgargiante spiccava tra gli svariati album impolverati esposti nella vetrina. Era un disco di qualche band indie locale, ma ciò che catturò l'occhio di Jack fu l'immagine sulla copertina.
Al tramonto, su una pista da skate, in quella che sembra una città europea, uno skater si muoveva fluido con la sua tavola sotto i piedi. La silhouette nera del ragazzo si stagliava contro il cielo dai colori invecchiati dal passaggio del tempo. Il movimento della tavola da skate e del ragazzo disegnavano un'ombra allungata sulle piastrelle di cemento. Era un momento intrappolato nel tempo, un istante di pura grazia e abilità, catturato in una frazione di secondo.
Senza pensarci due volte, Jack varcò la soglia del negozio e chiese al commesso dietro al bancone di vendergli quel disco. Il giovane commesso, con una pettinatura alla moda e un paio di occhiali da sole sul naso, gli sorrise e accettò di buon grado la sua richiesta.
Tornato a casa, Jack mise il vinile sul giradischi polveroso che aveva ereditato da suo padre. Il suono scricchiolante della puntina che si posava delicatamente sulla traccia iniziò a riempire la stanza. Le note di chitarra si diffusero nell'aria, e Jack si ritrovò avvolto dalla melodia malinconica.
Chiuse gli occhi e si immaginò sul bordo di quella pista, al tramonto, mentre uno skater sconosciuto danzava con il pavimento in un perfetto equilibrio tra gravità e libertà. Sentì la brezza tiepida sulla pelle, assaporò la sensazione di libertà che solo uno skate e una strada deserta possono offrire.
La musica continuava a suonare, e Jack si lasciò trasportare in quel mondo di movimenti eleganti e sfide audaci. Quella copertina diventò per lui un portale, un ricordo che sfuggiva alle mani ma che, grazie alla musica, poteva rivivere ogni volta che lo desiderava. E così, nella sua solitudine quotidiana, trovò un rifugio in un tramonto urbano immortalato su una copertina di vinile.
#skate#skateboarding#streetphoto#skateboard#skatelife#skyporn#sunrise#streetlife#skater#sunsetlovers#streetphotographers#streetphotographer#bnw#sunsets#skatepark#skateordie#skateeverydamnday#sk8#urbanandstreet#skatecrunch#skateanddestroy#sunsetporn#everybodystreet#lensculture#sunset_madness#skylovers#original photographers#lensblr#street photography#photographers on tumblr
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..Nella stanza del motel
quella notte, alle prime luci dell’alba,
scostò una tendina alla finestra. Vide nubi
ammucchiate contro la luna. S’appoggiò
al vetro. C’era uno spiffero freddo
che gli toccò il cuore.
Ti amavo, pensò.
Ti amavo tanto.
Prima di non amarti più.
Raymond Carver, da Blu Oltremare
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La condanna
Un tempo avevo solo cinque anni Seduta sul lettone la mia mamma mi intrecciava i capelli In quella che era una teca di vetro Fatta di finta felicità e spensieratezza. Poi venne il tuo sguardo maligno Dal più remoto degli angoli bui La tua oscurità si fece lentamente spazio Nel silenzio della stanza. Tutto si confonde nella mia mente, Urla di terrore si mescolano con le lacrime Le tue mani le toccano il viso, Ma non sono carezze, non è amore È la mera crudeltà di un uomo piccolo Che distrugge tutto ciò che osa guardare. Solo allora il mondo si ferma Inerme guardo la macabra scena, Qualcuno cerca di portarmi via invano e Mamma piange, mamma ha il volto sfigurato, Mamma ha l'anima che sta cadendo a pezzi davanti a me, Tu chiedi scusa in ginocchio ed io Prego ad occhi chiusi Eppure per quanto io possa urlare, nessuno mi risponde.
Poi come in un sogno la scena cambia Tu vai via ed io respiro di sollievo, Ma ho solo cinque anni E tra le mani il peso di una vita che non vuole incominciare Sulle spalle la pesante consapevolezza Che per sempre dovrò fuggire da te. Quando torni mesi dopo, Coloro che mi dovevano proteggere annuiscono omertosi I loro occhi sono buchi neri, Sorridenti mi consegnano a te Firmando la mia condanna a morte. Ma io ho solo vent'anni, Sono in ginocchio che prego Davanti all'altare di un dio che non risponde Gli chiedo invano quanto gli sia stato facile assolvere Te ed i tuoi sporchi peccati Mentre davanti al mio sguardo Ha saputo solo voltarsi dall'altra parte.
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04/06/2024
Pioggia sottile,
sul vetro appannato,
scivola lenta
come lacrime segrete.
Dolore muto,
nella stanza vuota,
il cuore si spezza
in un lamento sommesso.
Gocce incessanti,
ricordi spezzati,
il tempo si ferma
nel grigio del cielo.
E in questa pioggia,
riflesso del mio pianto,
trovo un frammento
di eternità ferita.
#diario personale#malinconia#sentimenti#solitudine#tristezza#dolore#amore#amore perduto#paura#poesia#pioggia#tempesta#temporale#nuvole#inquietudine
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TRINITY BLOOD
RAGE AGAINST THE MOONS
(Storia: Sunao Yoshida // Illustrazioni: Thores Shibamoto)
Vol. 1 - From the Empire
WITCH HUNT - Capitolo 2
Traduzione italiana di jadarnr dai volumi inglesi editi da Tokyopop.
Sentitevi liberi di condividere, ma fatelo per piacere mantenendo i credits e il link al post originale 🙏
Grazie a @trinitybloodbr per il suo prezioso contributo alla revisione sul testo originale giapponese ✨
”Sta riprendendosi bene. Troppo bene, a dire il vero. Stiamo inibendo il suo processo di rigenerazione con l’acqua santa.” Stava spiegando il dottore a Tres.
Erano su un ascensore di servizio che li stava portando nel reparto di isolamento dell’ospedale. Nessuno poteva uscirne od entrarne senza passare diversi controlli di sicurezza. Non che alcun posto di blocco avrebbe potuto fermare Tres Iqus.
“Come da sua indicazione, abbiamo ridotto la dose di acqua santa. Dovrebbe essere in grado di parlare in pochi minuti.”
“Affermativo.” Rispose Tres, per poi ripiombare nel silenzio.
Erano all’Ospedale di San Simone, un ospedale del Vaticano situato in un quartiere meridionale della città di Marsiglia. I primi sei piani era dove venivano curati i normali pazienti, ma l’ultimo piano aveva delle stanze di isolamento riservate alla Chiesa. Non c’era un’atmosfera piacevole. L’aria condizionata andava sempre al massimo e la luce era debole. Sembrava di essere in una tomba. Ma ovviamente Tres non ne era per nulla disturbato, non potendo provare alcuna sensazione o emozione.
“Inizierò subito l’interrogatorio. Prepari la stanza e mi porti i referti delle autopsie degli altri vampiri uccisi.”
“Non c’era molto da riportare. Gli altri vampiri mostravano segni di morsi che coincidono con quelli delle zanne di questo vampiro. I segni dei graffi coincidono con le sue unghie. Sarebbe un caso già risolto se non fosse per il motivo per cui avrebbe attaccato dei suoi simili.” Constatò il dottore.
“E questo è il motivo per cui sono qui io. Ci sono altre informazioni che dovrei sapere?” Chiese Tres.
“C’è una cosa…” iniziò il dottore, ma poi si interruppe, spalancando gli occhi per lo shock.
Un’infermiera era appena uscita nel corridoio incespicando. Si aggrappò alle braccia del dottore, cercando di prendere fiato. Aveva un’aspetto orribile.
“Che sta succedendo?” Gridò il dottore.
“E’ m—morto.” balbettò l’infermiera. “Non ha battito…”
Tres si precipitò attraverso la porta di metallo e guardò verso il letto. Era vuoto, ad eccezione di una macchia di sangue a forma di croce. Le manette e le catene che lo tenevano ferme erano sparse sul pavimento, come serpenti morti. Sangue colava dal soffitto sulle lenzuola.
Tres guardò in alto.
“Mio Dio!” Urlò il dottore.
Era il vampiro trovato nel rifugio. Qualcuno lo aveva crocefisso piantando i chiodi dei polsi e delle caviglie al soffitto; aveva un paletto conficcato nel cuore. Aveva gli occhi strabuzzati e la lingua gli penzolava fuori dalla bocca.
“Chi ha permesso che succedesse tutto questo? Portatemi immediatamente il responsabile dello staff!” Sbraitò il dottore.
“S—subito.” Disse l’infermiera.
“Aspetti.” Una voce fredda interruppe l’infermiera che stava già lasciando la stanza asciugandosi le lacrime.
“Nessun battito ha detto.” Ripetè Tres calmo. “Ma come avrebbe potuto verificarlo se è inchiodato lassù?”
Tres scansò il dottore e tirò fuori la pistola, puntandola contro l’infermiera. L’ebbe nel mirino per mezzo secondo ma era già scappata quando premette il grilletto. Il tamburo della pistola scattò con un rimbombo assordante che fece scappare tutti ai ripari.
THOOM!
Un pezzo di parete della dimensione di una testa crollò. Ma l’infermiera era riuscita a scappare. Tres si spostò verso la finestra a prova di proiettile e ricaricò la pistola. Il vetro era anti proiettile, non sarebbe stato in grado di farlo a pezzi. Il cemento d’altro canto non era così resistente. La pistola esplose nove colpi. Una nuvola di polvere e detriti si alzò nell’aria. Tres calciò la finestra, che prima si crepò, poi tremò ed infine si infranse, lasciando un buco nel muro.
“Chiamate le guardie all’ingresso.” Ordinò Tres, poi attraversò il varco che aveva creato.
Volò in caduta libera per sette piani. Cadde in piedi, i suoi stivali polverizzarono l’asfalto sotto di essi. L’impatto inaspettato creò il panico tra i passanti. Tres non ci badò. Rientrò nell’ospedale, ricaricando le sue pistole con efficienza meccanica. Nonostante fosse quasi sera, la sala di aspetto era ancora affollata.
Proprio in quel momento, l’infermiera del reparto di isolamento girò un angolo. Quando vide Tres avvicinarsi puntandole addosso l’arma senza alcuna espressione, si fermò per un istante.
“Non muoverti, cane del Vaticano!”
Afferrò una sfortunata bambina tra i presenti immobili. La madre strinse forte il braccio di sua figlia, che iniziò a strillare e scalciare. Niente di tutto ciò sembrò turbare l’infermiera. Dal nulla tirò fuori una pistola e la puntò alla tempia della bambina, ma lei si stava contorcendo talmente tanto che non riuscì a prendere la mira con precisione.
Si concentrò allora su Tres.
“Se solo provi a—“
BOOM!
La pistola di Tres scattò, e l’aria fu attraversata dal proiettile. Colpì l’infermiera dritta nel petto e la fece volare in aria con un tempismo perfetto. La madre e la bambina caddero al suolo nel momento in cui l’infermiera arretrò per il colpo. Andò a colpire il muro dietro di lei con un tonfo, con un buco fumante della dimensione di un pugno che le squarciava il petto. Mentre Tres superava la madre e la figlia ancora sotto shock, notò che avevano uno sottile strato di qualcosa di oleoso sulle mani e le braccia dove erano state afferrate dall’infermiera.
“Gel protettivo contro gli UV?” Domandò Tres al vampiro sprofondato nel muro. “Fai per caso parte dei Fleur du Mal?”
Tres afferrò il Metuselah per il collo, osservando per bene lo strato protettivo di gel sulla pelle. Il Gel UV poteva bloccare completamente i raggi ultravioletti del sole. Se se lo spalmava addosso, un vampiro poteva camminare tranquillamente in pieno giorno tra gli umani, passando inosservato. Gli esseri umani avevano bannato la sostanza anni prima, e di quei tempi raramente se ne trovava in circolazione.
“Dieci giorni fa, perché quel massacro al vostro rifugio? Cosa state cercando di nascondere?” Chiese Tres in tono monocorde.
Il vampiro tentò di ridergli in faccia, ma finì per strozzarsi col suo stesso sangue. Allora si limitò a sorridere sarcasticamente mostrando a Tres le sue zanne.
“Non penserai davvero che ti dica qualcosa! Muori, cane del Vaticano.”
BOOM!
Un colpo di pistola la mise a tacere. Il vampiro aveva perso una mano. Si divincolò nella presa di acciaio di Tres, ma per quanto si sforzasse non riusciva liberarsi.
“Per ucciderti dovrei strapparti il cuore e romperti il collo. Non morirai per così poco. Ma questo non ti impedirá di provare dolore.” Tres, affondò la canna della pistola nella ferita all’addome dell’infermiera, poi iniziò a muoverla, come se stesse frugando in cerca di qualcosa.
Il vampiro cercò di urlare, ma il dolore era così grande che dalla bocca non le uscì alcun suono.
“Allora? Hai deciso di parlare?”
L’infermiera annuì con un gorgoglìo. Poi iniziò a parlare sommessamente. Tres ascoltò con attenzione, prendendo nota di ogni parola, poi scaraventò sul pavimento il vampiro morente. Dopodiché gli voltò le spalle ed iniziò a camminare verso l’uscita, come se avesse improvvisamente perso ogni interesse. La folla lo guardava ammutolita, facendosi da parte mentre passava, come il mare che si separava al passaggio di uno degli antichi profeti. Tutti i loro volti erano tesi, ma ce n’era uno in particolare che mostrava solo rabbia.
“Voi non siete umano!” Gridò una voce, mentre un vaso di fiori colpiva Tres alle spalle. Quando si voltò, vide che era la madre di prima con la bambina in braccio.
“Non siete un essere umano! Avreste potuto uccidere mia figlia! E se lo avreste fatto, giuro che vi avrei ucciso io!”
La folla cercò di allontanarla dal prete, ma nessuno fu in grado di trattenere la furia di una madre mentre riversava il suo odio contro il volto impassibile del sacerdote. Secondo il sistema di simulazione di Tres, sparare era stata la soluzione migliore. Ogni altra opzione avrebbe provocato almeno nove vittime innocenti. La bambina sarebbe stata presa in ostaggio ed uccisa in ogni scenario alternativo. Ma non avvertì il bisogno di giustificare le proprie azioni, per cui si limitò ad alzare un braccio verso la sua accusatrice.
“Affermativo. Non sono un essere umano.”
Un istante dopo, si sentì un nuovo colpo di pistola, e la testa della giovane madre fu colpita da schizzi di liquido rossastro. La donna cadde in ginocchio, mentre una pozza di liquido si allargava verso le sue gambe. Davanti ai suoi occhi increduli vide che, dal braccio che Tres aveva usato per farle scudo, stavano fuoriuscendo scintille blu e bianche, insieme a del liquido scuro. La sua pelle artificiale era squarciata nel punto in cui la pallottola, ora conficcata nel suo muscolo artificiale, avrebbe dovuto colpire lei e la sua bambina.
Continuando a fare da scudo alla donna ed a sua figlia, Tres puntò l’M13 contro l’ascensore. Era lì che il vampiro se ne stava accovacciato, in procinto di sparare un ultimo colpo con quelle poche forze che le rimanevano.
“Sono Hercules Tres Iqus, agente AX dello Stato del Vaticano HC III X. Nome in codice Gunslinger. Non sono un essere umano. Sono una macchina.”
Tres Iqus sparò un colpo che fece saltare la testa al vampiro.
#trinity blood#sunao yoshida#rage against the moons#trinity blood novels#traduzione italiana#tres iqus#witch hunt#thores shibamoto
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Parlando con una persona, mi sono ritrovato a percepire quel calore che non sentivo da quando ero ragazzino, come se qualcosa di familiare e quasi dimenticato fosse riemerso. C'era un calore in quella stanza che non mi apparteneva. Le risate si intrecciavano con il suono dei piatti, un'armonia così naturale che sembrava quasi irreale. Seduto al tavolo di quella cucina di un mio amico e osservavo quei volti animati, ogni gesto così semplice e familiare, come una danza che io non avevo mai imparato.
Parlavano tra loro con una leggerezza che mi sembrava incredibile, come se ogni parola fosse accolta senza timore di essere fraintesa o respinta. Ero lì, fisicamente presente, ma dentro di me mi sentivo distante, come se un vetro sottile mi separasse da quella scena.
"È questo ciò che si prova?" mi chiesi, mentre una risata esplodeva dall'altra parte del tavolo. Mi sentivo un'intruso, un'osservatore in un mondo che non mi apparteneva. Il calore di quella famiglia era tangibile, come un abbraccio che potevi sentire anche senza essere toccato. Non era invidia, no. Non c'era rabbia o desiderio bruciante, solo un vuoto dolceamaro che mi si era posato sul petto. Mi sentivo fuori posto, come un viaggiatore che si ritrova a contemplare un paesaggio bellissimo ma straniero, incapace di chiamarlo casa.
Era una sensazione difficile da afferrare, come un'ombra che sfugge appena ti giri. Una tristezza delicata, quasi impercettibile, mischiata a un senso di stupore. Mi rendevo conto che quel calore, quella connessione, erano reali per loro ma estranei a me.
E mentre fingevo sorrisi e rispondevo a battute, fingendo di far parte di quel mondo, dentro di me quella sensazione si faceva sempre più presente. Non mi lasciava, si aggrappava al petto come un peso silenzioso. Forse era il sapore del calore, un sapore che avevo solo sfiorato ma mai assaporato del tutto, ma rimase lì, immobile, fino a quando non me ne andai, portandola con me come un'ombra che non potevo scrollarmi di dosso.
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Meno male che c'è Daria
Daria arriva in ufficio prima che l’edificio si animi di vita umana. Le luci al neon, fredde e implacabili, illuminano moquette sporche di passi e scrivanie nude di personalità. Appoggia la borsa sulla sua sedia girevole, controlla la sua agenda, si liscia la giacca stazzonata. La macchina del caffè borbotta nell’open space vuoto, l’odore amarognolo riempie l’aria. Non ha dormito bene, questa notte. Non dorme mai bene quando la luna piena si avvicina. Dentro di lei scorrono scie di sogni feroci; artigli prima invisibili e poi molto concreti lacerano la sua pelle, dall'interno, e le strappano pezzi di sonno. Ha graffi sul corpo, nascosti sotto la camicetta, segni del suo essere altro, oltre la pelle umana. La porta di vetro scorrevole sibila e il primo ad entrare è il direttore delle vendite, Tommaso, con quel suo sorriso storto. Le si avvicina.
«Daria, caffè. Subito. Doppio zucchero. Ho una call tra cinque minuti, sbrigati.» Daria annuisce. Non discute. Devia verso di lui il caffè che stava preparando per se stessa. Riesce quasi a fiutare il disgusto del collega, la sua insofferenza: per lui Daria non è davvero una persona, è un distributore automatico. Una donnina da cui esigere aiuto e assistenza. Lei abbassa gli occhi, con un vago «sì, certo.» Le mani tremano appena. Dentro di lei, qualcosa ringhia, ma è un ringhio silenzioso, acquattato tra le costole. Perché di giorno la sua natura è in letargo, soffocata in un involucro di normalità. A mezzogiorno l’ufficio è un alveare di voci maschili che si accavallano. Pochissime donne, tutte recluse in ruoli marginali: segretarie, archiviste, centraliniste, rare impiegate amministrative. Un paio di stagiste dall’aria intimorita.
Gli uomini lì giocano a misurarselo figurativamente per stabilire gerarchie, spandono cologne aggressive, ridacchiano sporcamente all’angolo della macchinetta del caffè, occupano tutto lo spazio, informano gli altri delle proprie conquiste, riappacificano conflitti professionali con una battuta rivolta alle tette della nuova assunta. Daria è la segretaria del capo dei capi, il CEO supremo e intoccabile, Massimo: un uomo sui cinquant’anni, stempiato e con la pancetta, sempre in giacca di lino costosa, con la bocca unta di burrocacao fighetto e arroganza. Si crede il non plus ultra, valuta se stesso usando come riferimento la leccaculaggine dei sottoposti sottopagati. Lei trascrive i suoi appunti, organizza le sue agende, corregge i suoi refusi, aggiusta il tiro delle sue cazzate, fissa le riunioni, fa chiamate importanti al posto suo. Però, è lo stipendio mensile di Massimo a sfoggiare cinque cifre, non quello di Daria. Quando anche lui entra nella stanza, l'aria si fa pesante.
«Daria, oggi niente pausa pranzo, dobbiamo preparare le slide per la riunione di domani. Ricordati di indossare qualcosa di carino, eh?» commenta senza guardarla negli occhi. Lei stringe le labbra. Annuisce. Non risponde. Sa che se fiata, lui la colpirà con un: «Scusa, hai detto qualcosa?» e le farà passare la voglia di replicare di nuovo. In questa Babele di sguardi insistenti, prevaricazione e allusioni, Daria si sente minuscola.
Ma è solo una faccia della medaglia. La sera, quando le scrivanie tornano vuote, lei rassetta i documenti, controlla le ultime email, e poi esce nel parcheggio sotterraneo. Saluta appena il guardiano che le fa un cenno distratto, ignaro di tutto, e torna a casa a piedi. Le strade della città hanno un odore diverso dopo le otto di sera, l’asfalto butta fuori aria più sporca e stanca, ci sono voci agitate che arrivano dai vicoli e dai bar che costellano il quartiere. Daria ingoia la solita umiliazione della giornata e sa, con una certezza atavica, che la notte le darà giustizia. Non giustizia legale, non retribuzione, no: qualcosa di più antico, un equilibrio che si ristabilisce con sangue e denti. Non ricorda come sia iniziato tutto, quando la bestia che dormiva nella sua carne si è svegliata. Forse è sempre stata lì. Forse è il risultato di anni di soprusi, di violenze subdole, di mani sul culo e commenti inaccettabili sussurrati. Forse è l’eredità di una notte di luna piena, di un incontro con qualcosa di inumano. Non importa. Ora quella forza animale è parte di lei. E le serve.
Nella sua piccola stanza in affitto, Daria toglie la camicetta, la gonnella grigia lunga che fa storcere il naso a Massimo, i collant neri e le scarpe col tacco basso consumato. Lancia tutto in un angolo. Indossa una tuta larga, annusa l’aria: la notte è tiepida, la finestra aperta lascia entrare un refolo di vento carico di odori. Il suo olfatto diventa più acuto, la pelle formicola. Sa già dove andare. Nella sua testa si mescolano le voci delle sue colleghe e di tutte le donne che ha conosciuto, storie mormorate di inferni taciuti, di percosse rimaste impunite, di grasse risate sempre così dolorose. Lei non è una giustiziera con spada e mantello. È un animale che risponde agli impulsi ferini che animano i suoi muscoli.
Quando si trasforma, non prova compassione, non prova pietà. Non è più remissiva o titubante. Quella parte sottomessa della sua mente si offusca in una fame antica. Ciò che resta è l’istinto di cacciare i maschi peggiori della città: quelli che gridano “troia!” se guidi troppo lenta, che ti spogliano con gli occhi quando torni a casa sull'autobus la sera, che trascinano le ragazze dietro i cassonetti scambiando la cortesia con un via libera libidinoso. Resta l'istinto di odorare la loro paura, sentire le loro ossa spezzarsi tra le fauci; quello la fa sentire viva.
Daria non giustifica se stessa, sa che questa è una regressione senza ritorno, un atto estremo. Ma è anche un equilibrio: il mondo scivola nella follia e lei si adegua, usando le sue zanne dove la ragione fa male i conti. Quella notte, la luna è quasi piena. La schiena si curva, i muscoli si gonfiano, la pelle si copre di peli scuri e ispidi. Le dita si rompono in artigli, il volto si allunga, la bocca si affolla di denti affilati come pugnali. Una donna lupa alta quasi due metri, su due zampe posteriori, massiccia, la coda che sferza l’aria. Gli occhi gialli brillano nell’oscurità.
Esce dalla finestra con un salto silenzioso. Corre sui tetti, annusa l’aria. Cerca l’odore dell’orrore umano: il sudore rancido di chi sta per fare del male. Lo trova, sempre. Quella città ne è piena. Nelle vie più buie, ci sono uomini che non temono nulla. Non immaginano che la predatrice è in agguato. Individua un maschio che piscia in un vicolo dietro un locale notturno: un omone con l’alito di birra e i pugni chiusi. Daria lo riconosce: è piuttosto noto in zona perché pesta le prostitute e strattona le maniche delle cameriere quando non lo servono subito. Mano, lo chiamano. Lavora in municipio. Mano stanotte ha adocchiato una bambola con cui giocare: magra, giovane, straniera, ingenua. Ce l'ha lì accanto. Lei se ne sta lì con la borsetta stretta al petto, si guarda attorno incerta, come un passerotto. «Ho parcheggiato qui vicino, ti faccio vedere una cosa. Se fai la brava ti do il numero di quel mio amico al commissariato. Se fai la brava.» Lei sbianca. Ma la lupa Daria non conosce diplomazia. Balza giù da un tetto, atterra dietro Mano. Un ringhio bassissimo, un suono che fa vibrare l’aria. La ragazzina scappa via strillando – a Daria dispiace, ma tant'è. L’uomo si volta, con ancora il cazzo in mano; urla peggio della sua preda.
In un attimo, artigli nella gola, zanne in quella carne molliccia, il sangue schizza e dipinge i mattoni sporchi, la trachea di Mano gorgoglia. Il corpo cade a terra come un sacco vuoto. Basta così poco, per morire. Bastano pochi secondi e tutta quell'arroganza scivola via in un rivolo di sangue, urina puzzolente e birra. Daria si lecca il muso, poi si dilegua, risalendo sul tetto con un balzo. Sente la vita pulsare in ogni cellula. Sente l’ingiustizia del giorno mitigata dalla sua ferocia notturna. Non ha rimorsi. Ha solo fame.
La mattina successiva Daria torna in ufficio come se nulla fosse accaduto. C’è un certo brusio nell’aria: qualcuno ha sentito che nella notte c’è stato un omicidio cruento, un altro uomo massacrato come un animale. Non è la prima volta, chiaro, solo che a volte la notizia si fa strada fino ai telegiornali, a volte no, a seconda di quanto è succosa o di quanto era un pezzo grosso il morto. Tommaso ne parla a voce alta, con una certa eccitazione: «Avete sentito? Un altro cristiano fatto fuori. Dove andremo a finire? Che città di merda.»
Daria non solleva lo sguardo dalla sua tastiera. Sorride leggermente. Se solo sapessero. Dopo la presentazione, Massimo la chiama nel suo ufficio e, come al solito, la rimprovera per una sciocchezza inesistente. Le ricorda che deve sorridere di più quando parla con i clienti. Borbotta che a nessuno piace parlare con una musona so-tutto-io. Le fa la predica su tutti i vantaggi che le donne come lei potrebbero avere lì dentro se solo si lasciassero andare. «Daria, puoi averli in pugno quei tizi, lo capisci o no? Sono uomini, un paio di sorrisi, qualche moina e ti firmano qualsiasi contratto. Ascolta me, lo so. Le basi!»
Daria annuisce, sentendo i canini umani premere sulle labbra. Pensa a come sarebbe facile sbranarlo se solo là fuori ci fosse l'eleganza della luna e non l'impertinenza del sole. Ma no, bisogna aspettare. E poi Massimo è troppo in vista, troppo protetto. È un manipolatore subdolo. Lei preferisce colpire prede più manifestamente violente. Almeno per ora. A pranzo Daria non ha appetito. Va a prendere un caffè nell’angolo cottura. Anche altre segretarie gravitano attorno a quel piccolo rifugio temporaneo. Una di loro, Caterina, ha il mento che trema e gli occhi così stanchi da sembrare vuoti. Lavora sotto Fulvio, uno che ha tenuto il broncio a tutti per settimane perché il suo staff non gli aveva fatto i complimenti per il suo nuovo completo Hugo Boss. «Vi incazzate perché i maritini non notano le vostre tinte, ma quando c'è qualcosa di davvero interessante da guardare fate le finte tonte.» Aveva detto.
Daria la osserva, Caterina abbassa gli occhi. La bestia dentro ringhia. Si chiede se quella notte uscirà ancora. Probabile. Ma deve stare attenta, la polizia comincia a cercare pattern, a capire se dietro quei delitti c’è una mano umana o altro. In effetti, nella zona, alcune telecamere di sicurezza hanno ripreso ombre vaghe, sagome impossibili. Gli inquirenti sono confusi. Un animale feroce? Un serial killer impazzito mascherato da animale? Una leggenda metropolitana? Daria si sta sfogando più del solito. Più di quanto non abbia mai fatto. Ne ha bisogno. Il tempo passa, le notti si susseguono, le lune cambiano forma, si gonfiano e si sgonfiano, come lattiginosi polmoni in cerca d’aria, ma la rabbia che scuote le ossa di Daria non muta mai. Aumenta la frequenza delle sue cacce. Non sempre uccide. A volte spaventa soltanto, fa scappare un gruppo di bulli. Altre volte interviene quando qualcuno tenta uno stupro o allunga le mani dove non dovrebbe. In quei casi non c’è pietà: lascia i corpi smembrati e aperti, segnati dai suoi artigli. Non c’è una regola chiara, solo la sua fame di punire.
Ma più la storia va avanti, più l’ufficio diventa un luogo di tensione. Massimo e gli altri manager testosteronici si innervosiscono: le notizie dei morti agitano i loro sogni. Un paio di clienti importanti hanno annullato un meeting proprio all'ultimo; non se la sentivano di fare trasferte. E i giornali parlano di un “mostro della notte” che uccide uomini. I giornalisti esitano a creare connessioni non confermate dalla polizia, anche se quelli più audaci iniziano a far andare a braccetto le parole “violenti” e “uomini”. Qualcuno propone un movente: un gruppo di nazifem esaltate? Una setta? Il dibattito si infiamma. Daria gode di questi dibattiti, anche se non lo mostra. Va avanti a testa bassa, nella sua miserabile vita diurna. Ma una sera, al rientro a casa, trova una pattuglia che gironzola proprio nel quartiere. Annusa la paura degli agenti, o meglio la tensione. Deve stare attenta. Forse deve cambiare zona di caccia.
Ma un giorno Massimo fa una battuta sui tacchi di Daria davanti a un nuovo cliente – «Sembrano due punteruoli! Speriamo non abbia le sue cose o siamo fritti!» – e lei decide che quella notte lo seguirà. Non torna neanche a casa dopo i soliti straordinari non pagati che la inchiodano alla sua scrivania fino a tardi: nel parcheggio dell'ufficio lascia che sia il suo naso a pensare per lei e fiuta l'odore del suo capo; è lì, come una scia rumorosa che aspetta solo di essere svelata. Lo trova in un ristorante costoso a mangiare in compagnia della moglie e della figlia. Daria abbandona la sua forma lupina e si avvicina alla vetrata di quel posto così chic. Li guarda; lui ride e divora il filet mignon che ha davanti, la moglie pilucca distrattamente un'insalata e la figlia è immersa nello schermo del cellulare.
Daria stringe la mascella. Massimo non è uno stupratore di strada, no, ma è uno che distrugge la dignità delle donne ogni giorno, pezzo per pezzo. Non sarebbe giusto punirlo? La bestia scalpita. Ma lui è lì con la famiglia. Non può lasciarsi alle spalle altri testimoni e in fondo detesta traumatizzare le povere donne che hanno la sfortuna di essere in compagnia degli uomini che caccia. Tentenna, anche se prima era così certa sul da farsi: ammazzare un CEO come lui significa chiudere i giochi. Diventerebbe impossibile per lei continuare a fare quello che fa ed essere una donna lupa.
Quella notte lascia stare Massimo e trova un’altra preda: un uomo che sulla strada di casa le chiede ripetutamente quanto vorrebbe per un pompino. «Oh, si fa per scherzare! Sei vestita come una di quelle, ecco» aveva riso. Daria indossa un abito lungo di lana. Beige. Basta un secondo e quell'abito viene fatto a brandelli dal corpo bestiale della lupa. La trasformata Daria piomba sull'uomo, gli fa morire la risata nel petto e poi la strappa dalla sua cassa toracica con una zampata brutale. Torna a casa con un malumore che le fa vibrare un basso ringhio in gola; quel vestito le piaceva.
La mattina successiva, appena mette piede in ufficio, Daria avverte subito un’atmosfera diversa. C’è un chiacchiericcio strisciante. Se tende le orecchie può cogliere stralci di conversazioni: nomi di vittime, ipotesi sussurrate, frasi mezze dette. Sui social, qualcuno ha cominciato a parlare di una “giustiziera”. Una che sbrana gli uomini violenti e abusanti, letteralmente. E lo fa come se fosse una bestia feroce, un lupo. Il cerchio si stringe e a Daria gira la testa; va in bagno. Lì, mentre si sciacqua la faccia, sente due segretarie parlottare. Una dice che sarebbe figo stampare degli adesivi con la silhouette di una lupa nera su sfondo rosso.
«Che top, ne vorrei troppo uno. Lo metterei sul computer, terrebbe lontani gli stronzi.» L'altra dice che nei quartieri periferici stanno spuntando dei murales a forma di colpo d'artiglio o di lupo con la bocca spalancata. Dice poi che un collettivo di universitarie femministe ha usato una semplice immagine stilizzata, due orecchie a punta e occhi gialli, per pubblicizzare un talk sulla misoginia. «Un po' pulp tutta questa storia, ma devo dire che mi fa meno paura uscire la sera.»
Daria non commenta, non si mostra. Ma dentro di lei si insinua un sorriso feroce. All’ora di pranzo, Tommaso non fa commenti allusivi quando Daria e le altre entrano nell’angolo cottura. Si limita a un cenno del capo. Evita il contatto visivo troppo insistente. Anche Fulvio, il capo di Caterina, ora ringrazia con cortesia forzata quando le assistenti gli portano delle carte. Come se un interruttore fosse stato premuto. Non c’è rispetto sincero, no, solo timore. Ma funziona. Un'educazione mimata a pappagallo per non attirare l’attenzione di quella punitrice sconosciuta che, come tutti ora sanno, è là fuori. Il giorno trascorre in questo strano limbo. Lei esce col tramonto, respirando l’aria di un universo parallelo: uomini che camminano guardandosi i piedi, spalle curve come a voler prendere meno spazio possibile, parole calibrate, mani in tasca. Non è giustizia, non è pace, ma è qualcosa.
Le notti di caccia continuano, e ogni morte aggiunge benzina sul fuoco della leggenda della lupa. Alcune donne hanno iniziato a radunarsi in piccoli gruppi. S’incontrano in appartamenti disadorni, bar poco illuminati, parcheggi deserti. Indossano spille o magliette con la sagoma di una lupa tutta nera. Leggono le notizie sui femminicidi che nonostante tutto non si interrompono mai e ringhiano tra i denti. Raccontano senza filtri le proprie storie di abusi, violenze, molestie, fanno nomi scandendo per bene le lettere. Una survivor intervistata alla televisione fa addirittura un gesto, alla fine del suo discorso: graffia l’aria con le unghie e mostra i denti. «Un giorno, magari non oggi ma un giorno, sarà il nostro turno di essere le vere belve» dice.
Non è un sogno innocente, è una rabbia antica che trova spazio. Non c’è più solo paura. C’è anche il desiderio acuto di non chinare la testa. Massimo, intanto, ingaggia guardie del corpo. Tre uomini nerboruti che lo seguono come cani da guardia. Ha cambiato atteggiamento verso Daria, la tratta con una finta gentilezza da vomito. Le dice: «Stasera puoi uscire prima, non vorrei mai farti fare tardi…» Lei annuisce, sente l’odore del suo sudore acre. Lui guarda la finestra, come se temesse che un’ombra pelosa possa arrampicarsi sul cornicione da un momento all'altro.
Le altre ridono a fior di labbra: «Hai visto Massimo? Pare abbia coda tra le gambe.» La lupa non ha ancora sbriciolato la sua pelle, ma sta già masticando la sua vanità. Ma nei giorni successivi, però, Massimo mostra di nuovo la sua vera natura. Prima una stagista, poi un’impiegata amministrativa, poi due segretarie a contratto determinato: con la scusa di un calo di fatturato o di ristrutturazioni interne, inizia a licenziare le donne una dopo l’altra, senza pietà né giustificazioni plausibili. Al loro posto, restano solo uomini, maschi rassicurati dalla scomparsa di potenziali accusatrici. Un ufficio tutto al maschile, come un club esclusivo dove le battute zozze sarebbero state accolte con una pacca sulla spalla e nessun senso di colpa. Senza donne non c’è bisogno di fingere rispetto, ovvio. Un modo per poter finalmente respirare il fetore della propria arroganza a pieni polmoni, convinti di aver messo in salvo la loro malsana idea di normalità. Daria è una delle poche che rimangono.
«Meno male che ci sei tu, Daria» le dice Massimo, «sempre così brava e carina.» E la guarda come guarderebbe un topolino con una zampina spezzata. Quel misto di compassione e disgusto che si dà alle creature infime, innocue e inutili. Daria sa che per finire questo circo deve fare l’ultimo passo. Perché no, non lo salverà. Massimo non è meno colpevole degli altri. Meritano tutti la stessa fine? Forse no, ma Massimo non ne uscirà vivo. La leggenda della lupa è nata dal sangue, e dal sangue verrà consacrata.
Quella notte Massimo si rifugia nel suo attico blindato. Le guardie del corpo presidiano l’ingresso. La moglie e la figlia sono via, in vacanza forzata. Lui resta con il suo whisky costoso, la cravatta allentata, il cellulare a portata di mano sudaticcia per chiamare la polizia al primo rumore. Una pistola ottenuta solo Dio sa come appoggiata sul tavolino laccato. Daria sa bene come si muovono le prede impaurite: frenetiche, prive di lucidità. Entra dal lucernario come un’ombra. Le guardie presidiano la porta e l'ingresso, ma non il tetto. Un errore banale, ma comprensibile: chi si aspetterebbe che la “lupa” giustiziera sia davvero una lupa? Daria scivola dentro, camminando carponi sui travetti. Scende con un balzo nel corridoio. Un rumore, una guardia si volta. Troppo tardi: artigli nella gola. L’altra guardia non fa neanche in tempo a urlare: un morso letale gli stacca la testa dalle spalle. La terza si precipita verso la porta, non ci pensa due volte a lasciare il suo capo da solo.
Massimo sente i passi pesanti e quei ringhi mescolati ai grugniti soffocati dei suoi uomini. Ora ha la pistola nella mano sudata. Quando Daria entra nella stanza, lo fa in forma umana. Nuda, coperta di sangue, brandelli di carne e cartilagine dalla testa ai piedi. Una donna, non un mostro. Nell'aria si spande odore di piscio mescolato al profumo di aftershave di lusso; Massimo ha paura. «No… no… ti prego…» balbetta, indietreggiando. Daria non parla, non sorride. Non c’è bisogno di parole, boriosi monologhi o giustificazioni. Si getta su di lui, un proiettile sfiora con un tuono il suo orecchio destro. Lei si sposta in un lampo e afferra il braccio di Massimo, lo torce finché sente l’osso spezzarsi, un suono secco. L’uomo urla, getta la pistola a terra. «Ti faccio ricca! Ti prego, ho soldi, lo sai! Daria, ci conosciamo da anni!»
Daria ringhia e in un attimo la lupa torna a essere pelo, denti e artigli. Non è questione di soldi, ovviamente, e mai lo è stata. È questione di equilibrio. Di sangue. Chiude le fauci sulla mascella di Massimo e tira, forte. Snap. Il sangue sgorga generoso sul lusso di quella casa, lui rantola e poi si ammutolisce. Un altro cosiddetto maschio alfa ridotto a carcassa vuota e inutile. L’indomani la città è nel caos. Massimo era importante, conosciuto, intoccabile. E ora è morto, sbranato come un coglione qualsiasi, in casa sua. Le donne che organizzano incontri clandestini si scambiano sguardi allibiti, alcune quasi piangono di commozione. Gli uomini, tutti, sentono un peso sullo stomaco. Ora sanno che nemmeno la ricchezza, le guardie o i piani alti li salvano. La donna lupa può arrivare ovunque. Qualcuno si convince che è ora di cambiare. Altri semplicemente si nascondono. Le donne indossano la spilla della lupa con ancora più orgoglio. Ma Daria non resta a godersi lo spettacolo. È braccata, lo sa. La polizia ispezionerà l’azienda, farà domande, cercherà tracce. Lei non può restare. C’è stato un tempo in cui voleva solo riequilibrare i conti. Ora ha generato un mito. E i miti sono pesanti.
Quella sera, se ne va. Si volta indietro un’ultima volta, dalla stazione degli autobus. Vede un gruppo di ragazzine incappucciate agitare bombolette spray davanti alla serranda chiusa di un negozio. Iniziano a disegnare la silhouette di una lupa. Daria tende le orecchie e le sente mormorare slogan ancora confusi, ma già colmi di rabbia e determinazione. Non hanno bisogno di conoscerla davvero, di metterla su un piedistallo. A loro basta un'idea. E a Daria basta sapere che sono meno sole. Daria sale su un autobus diretto lontano, con uno zainetto e poche cose. Avrà tempo per decidere cosa fare del suo potere, del suo futuro. Per ora quello che doveva e voleva fare è stato portato a termine. Dietro il finestrino sporco, la luna sfuma tra i palazzi, di nuovo quasi piena, ancora affamata di grida e giustizia imperfetta ma vera. La lupa è in cammino.
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Poesia di https://www.tumblr.com/maripersempre-21
Scrivo "ti amo"
sul vetro appannato
mentre la neve scende piano
aldilà di questa finestra...
come una bimba
disegno un cuore...
il fuoco nel camino
riscalda la stanza,
il corpo,
ma non il cuore...
non basta la legna
che brucia scoppiettante
per scaldarmi dentro...
solo la tua presenza
può infiammare il mio cuore...
M.C.©
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Fan fiction sul personaggio di Alastor di Hazbin Hotel .
La storia inizia all'Inferno: attraverso una serie di flashback che si susseguono come interferenze radio nella mente di Alastor.
L'ho scritta per fare luce sul suo passato e sul perchè abbia perso il senno e sia finito all'inferno.
Radio Frequencies
Il pugno aveva mandato in frantumi lo specchio: mille schegge di vetro erano esplose sul pavimento. La pelle del guanto si era lacerata ed il sangue nerastro colava lungo la mano. Le tenebre della stanza permeavano ogni angolo, accalcate simili ad una folla soffocante. Sciolse la stretta della mano e ticchettò con la punta rossa delle dita guantate i profili in frantumi dello specchio ancora appeso alla parete.
Il dolore era piacere, amava vederlo pervadere le sue vittime poteva sentirlo, ma questa volta scivolava in lui lungo le nocche fino al braccio, la cosa lo contrariava: si chiese come poteva aver perso il controllo .
Si appoggiò alla parete con l'avambraccio, mentre con l'altra mano continuava ad accarezzare morbosamente quello che restava dello specchio: tamburellava lento poi frenetico, in modo incontrollato. Tra le schegge osservò il flash rosso sangue del suo sguardo, in quella tenebra nera come pece vacillava come un neon.
Sentì nuovamente quella fitta alla testa, come una sintonizzazione radio sovrapposta, un'interferenza direttamente sparata nel cervello, strinse i denti in un sorriso folle: non amava perdere il controllo del suo show.
La fitta alla testa divenne insopportabile, si piegò all'indietro fino a sfiorare il pavimento, strinse gli artigli alla testa, si sarebbe cavato il cervello dal cranio AH AH AH
Davanti agli occhi le interferenze sfarfallavano come onde radio multicolore, un carosello di immagini senza senso, stava perdendo la sua mente, dannazione, era come se qualcosa si stesse frammentando dentro la sua testa.
Spostò nuovamente lo sguardo verso il suo riflesso su una delle schegge dello specchio, la luce dei suoi occhi rossi dalla pupilla a valvola erano spariti.
Un'altro sfarfallio, un'altra interferenza e per un attimo un uomo dai capelli castani e gli occhiali gli rimandò lo sguardo dalla superficie riflettente.
"Tutto sotto controllo" si disse, aveva controllo su tutte le sue piccole pedine, sulle sue vittime, le sue adorate prede, era all'Inferno, era il suo territorio di caccia, ma in quel momento si senti disorientato e non era......piacevole.
Riportò alla memoria tutti i volti di chi aveva ucciso: il mortale nel riflesso non era nessuna delle sue vittime, nessuno dei demoni della sua lunga lista di "signori supremi".
Un'altra fitta, più intensa di quelle precedenti stavolta non avrebbe retto, le comunicazioni si interruppero definitivamente su brusio piatto
NO SIGNAL brrzt brzzt...
Quando il segnale radio si fu risintonizzato era in ginocchio sull'erba umida, sulle lenti degli occhiali crepate in più punti gocciolava del sangue rosso ( rosso?), il dolore era insopportabile, ma si cavò a forza in gola le urla e strinse i denti fino a sentirli stridere.
"Allora stronzetto con il pedigree, la mettiamo una bella firmetta?"
Due scagnozzi lo tenevano per le braccia mentre quello più grosso che lo aveva pestato fino a quel momento, gli sventolava davanti un foglio scritto a macchina ed una penna ad inchiostro.
Lo guardò da sotto gli occhiali con un misto di sufficienza e divertimento, il sangue gli annebbiava la vista con una velata nebbia solferina.
"Pretenzioso chiedere una firma da chi non sa neppure graffiare il foglio con una X" la ginocchiata allo stomaco arrivò senza preavviso, il fiato gli si spezzò in gola, ma non aspettò neppure di riprendersi del tutto dal colpo
" Il mio programma non è in vendita, non vi cederò i diritti! E' stato un vero piacere verbalizzare con voi Signori" la voce spezzata dalle percosse era roca ma sicura, non chiara e sensoriale come quando era alla radio.
Quello più grosso sbuffò con disappunto, ripose il foglio e la penna nella valigetta di pelle, si schiarì la voce in modo che potesse sentirlo chiaramente e si avvicinò minaccioso alla faccia del conduttore radiofonico
"Ascoltami bene, tu pensi di essere una star, ma l'unica cosa che sai fare è creare rogne a chi non dovresti"
lo prese per il colletto della camicia ed inizio a stringere
"A breve ci saranno le elezioni e tu sei una spina nel fianco"
strinse ancora, l'aria iniziava a passare a fatica attraverso l'esofago.
" Il tuo programma deve terminare o qualcuno ci lascerà le penne!"
Strinse ancora ed ancora: non riusciva neppure a deglutire, iniziò a tossire tentando di cacciare dentro un pò d'aria.
La trasmissione sfarfallò davanti ai suoi occhi, sentiva nelle orecchie il gracchiare delle frequenze, ci fu un altro black out.
Un brusio indistinto, un lungo fischio ed il suono esplose dolorosamente nelle sue orecchie, un nuovo canale si era sintonizzato: in lontananza c'erano fumo ed urla, la torre della stazione radio era in fiamme, i vigili del fuoco cercavano di spegnere l'incendio, ma pezzo dopo pezzo la struttura stava crollando.
Corse verso tutto ciò che aveva: il suo programma radiofonico, la sua verità per la società... Venne fermato da una stretta inopponibile: Husk lo teneva stretto per il braccio, lo guardava muto con un misto di rassegnazione e comprensione.
"Lasciami andare ubriacone da strapazzo!"
Husk lo guardò torvo:"Non c'è più niente da fare, ti ammazzerai se ti butti lì dentro"
"Tu non capisci, c'è tutto il mio lavoro lì dentro! Tutte le prove! Tutto!"
Ci fu un crepitio poi un lungo suono metallico, la torre venne giù franando tra le fiamme.
Gli occhi dorati del conduttore erano sgranati, completamente inespressivi, si afflosciò a terra, strinse la polvere della strada con le dita esili fino a farsi sanguinare le unghie.
Tutto il suo mondo era sprofondato.
Husk gli posò la giacca sulle spalle per nasconderlo alla vista dei curiosi che sembravano averlo riconosciuto e lo rimise in piedi.
Si allontanarono tenendosi a debita distanza dalla folla.
Teneva con entrambe le mani i lembi della giacca sulle spalle,gli occhiali ancora chiazzati di sangue dopo il pestaggio.
"Non è finita qui, non mi arrenderò! La verità verrà a galla, contano di avermi tappato la bocca, ma non mi fermerò. Ci starà giustizia, New Orlean merita di conoscere la verità su quel pezzo di merda. "
Riorganizzò i pensieri: avrebbe dovuto ricostruire il suo studio da zero, raccogliere nuovamente tutto il materiale delle indagini e realizzare tutto prima delle elezioni.
Stava per girarsi verso Husk, ma di colpo tutto divenne nero, il canale era saltato di nuovo, uno pezzo jazz gracchiava in sottofondo, poi silenzio, qualche brusio.......
Fu colpito da una luce bianca abbagliante ed era di nuovo in onda.
Gli occhi erano doloranti per la luce improvvisa, pian piano passarono dalla sfocatura a rendere nitidi i contorni dell'ambiente, cercò gli occhiali sul comodino, li infilò e si diede uno sguardo intorno: si trovava presumibilmente in un ricovero all'interno di un ospedale, altri lettini erano posti in sequenza per la stanza: lenzuola bianche e coperte verde tenue.
Aveva la testa che gli scoppiava, si guardò le mani: la pelle pallida e tirata delle dita gli suggerì che doveva essere ricoverato da un pò.
Chiuse gli occhi e si rimise a letto cercando di ricordare come si trovasse in quel luogo.
Sentì il personale dell'ospedale muoversi tra i ricoverati, poco distante la sua attenzione fu catturata da due infermiere che parlottavano tra loro bisbigliando:
"Davvero una tragedia"
"Io seguivo sempre il suo programma, riusciva a rapirti con le sue storie di cronaca" disse una delle due.
"Dopo l'incidente della torre radio, aveva ripreso il programma in un nuovo studio, si dice che abbia pestato i piedi a chi non doveva" confessò l'altra
"Certo! A quel farabutto che ha perso le elezioni, grazie al suo programma radiofonico lo hanno arrestato!"
"Ma ne è valsa la pena? La sua carriera è rovinata! Non potrà più condurre il programma alla radio" la voce dell'infermiera era amareggiata
"Cosa hanno detto i medici?"
"E' fortunato se potrà tornare a parlare, gli hanno bruciato la gola con l'acido" sussurrò l'altra tenendo il palmo della mano alzato accanto alla bocca in segno di confidenza.
Fu percorso da un brivido, lo shock lo aveva paralizzato: non parlavano di lui, non potevano, non poteva essere..
Provò a parlare, ma la gola era bloccata, si sforzò di urlare per richiamare l'attenzione dell'infermiera, ma nulla era completamente afono, riuscì ad emettere solo un sibilo rantolante.
Si tirò a sedere e si tastò la gola, appena le dita strinsero leggermente un dolore lancinante lo percorse.
Sentì montare la disperazione: la sua voce! Strinse i pugni, la rabbia stava esplodendo dentro di lui come non l'aveva mai sentita in vita sua, avrebbe voluto spaccare tutto.
Ogni cosa che aveva costruito in quegli anni: la sua carriera, la sua passione, il suo programma, erano tutta la sua vita!
Per la prima volta si sentì sprofondare in un baratro senza ritorno.
Lo sguardo sotto gli occhiali era febbricitante: neppure la crisi del 1929 lo aveva stroncato, ma adesso? Non gli restava più niente.
Il bicchiere sul comodino era così invitante, luccicava ai leggeri raggi del sole. non si accorse neppure di averlo preso, fu un istante ed il bicchiere era andò in frantumi, come la sua vita. Mentre stringeva le schegge nella mano rivide la sua stazione radio in fiamme, ripercorse tutte le difficoltà che aveva dovuto affrontare per mettere in piedi il suo programma, tutte le volte che avevano tentato di tappargli la bocca, il volto orgoglioso di sua madre quando aveva iniziato a lavorare in radio.
Le dita si mossero da sole lasciando scivolare via tutte le schegge di vetro, trattennero solo quella più lunga, il suo sguardo era piantato nel vuoto, le pupille strette in una fessura.
Il frammento di vetro si fece largo affondando nel sottile strato di pelle dell'avambraccio, poi più in profondità fino alla carne, come se non percepisse dolore, tagliuzzava freneticamente, il sangue schizzò ovunque, sulle lenzuola immacolate, sul profilo metallico del letto.
Urla lontane lo raggiunsero, era tutto ovattato nella sua testa, qualcuno prese a scuoterlo per le spalle, una mano stava provando a togliergli il frammento di vetro dalla mano.
Davanti ai suoi occhi un'infermiera terrorizzata gli gridava qualcosa, non riusciva a capirla, accorsero i medici, i volti contratti dalla preoccupazione tenevano in mano delle cinghie di cuoio ed una siringa.
L'infermiera si era allontanata, aveva il volto e le mani sporche di sangue e continuava ad urlare. I medici lo bloccarono, uno di loro si avvicinò al suo collo tenendo la siringa: non sentì nulla, non sentiva più niente già da un pò..
Lo legarono al letto con le cinghie, le guardò strette al suo corpo e lungo le braccia, lo sguardo si posò sugli avambracci:erano un miscuglio indistinto di sangue e carne.
Si chiese di chi fossero quelle braccia...
Poi il ronzio disturbato di una comunicazione radio si frappose tra i suoi pensieri, le frequenze saltarono nuovamente in un brusio frastornante, le tenebre erano un sudario, in quel vuoto sinistro si fecero largo due occhi rossi come l'inferno, erano due fanali inquietanti che lo scrutavano e sorridevano
Li vide per un breve istante, poi sparirono, qualche distorsione radio e la trasmissione riprese, era nuovamente ON AIR.
Si lasciò cadere con slancio sulla sedia facendola girare su se stessa per spostarsi alla console, fece scivolare le agili dita sulla valvola del volume e con l'indice slittò la levetta della diretta verso l'alto, strinse tra le mani il microfono a condensatore: un gentile omaggio della Bell Labs in anteprima, non molti studi potevano vantarne uno, ma nulla gli era precluso, non più...
Accarezzò il microfono con eleganza e lasciò scivolare la voce al suo interno
" Salve carissimi per il vostro intrattenimento è un piacere ritrovarvi qui all'Hazbin Show" il timbro era caldo ed inebriante, si perse nel suo suono, le belle parole fluivano. Aveva un indice di ascolti come non se n'era mai visto a New Orleans, il format era assoluto e non lasciava spazio ad altri concorrenti, ma non era solo questo, da quando dopo un brutto incidente aveva perso la voce per alcuni anni il famoso conduttore era sparito dalla piazza, ma tre anni dopo era misteriosamente riapparso dal nulla, con la sua voce inconfondibile che appassionava alla cronaca gentiluomini e faceva sospirare le signore. Ma c'era qualcosa di più chi lo ascoltava restava ipnotizzato dal suo timbro, quella tonalità resa leggermente bassa aveva assunto una sfumatura sinistra ed irriverente, consciamente nessuno ci aveva fatto caso e gli ascoltatori venivano irretiti come da un incantesimo, sedotti e legati al suo programma radiofonico. In città il tasso di omicidi era spaventosamente aumentato e la trasmissione era schizzata alle stelle.
Si alzò dalla sedia tenendo tra le mani il microfono da postazione, arrotolò il cavo di alimentazione attorno all'indice
"Oggi voglio solleticare la vostra attenzione con un nuovo caso"
danzò nello studio con rapidi passi di swing facendosi largo tra i cadaveri sul pavimento.
"C'è un nuovo assassino in città"
con un passetto di danza qua ed uno là fece attenzione a non macchiare le derby col sangue, saltellò oltre le braccia senza vita di una vittima.
"Sembra proprio che le autorità non sappiano che pesci prendere! Ahi Ahi molto male, abbiamo un cannibale e pluriomicida a piede libero, la polizia dovrebbe impegnarsi seriamente" canzonò sorridendo da un orecchio all'altro inclinandosi sul microfono.
Normalmente un programma radiofonico del genere sarebbe stato chiuso: deliberatamente provocatorio verso il potere costituito e alle prese con tematiche scomode di cronaca nera trattate con tanta disinvoltura, eppure il pubblico nel momento stesso in cui accendeva la radio era come rapito, l'oscuro umorismo del conduttore era diventato il suo marchio di fabbrica e per qualche oscura ragione il pubblico lo adorava.
La sintonizzazione iniziò a vacillare, il suo campo visivo fu interrotto nuovamente da onde radio orizzontali ad intermittenza, le frequenze sfrigolavano nel suo cervello in modo insopportabile: la trasmissione si stava rimodulando fino a stabilizzarsi sul suo ultimo canale.
Quando si riprese aveva le braccia immerse fino ai gomiti nel sangue: la vasca ne era piena , il tanfo alcalino dei liquidi organici era nauseante.
Alle sue spalle incombeva un'ombra tremolante: era in attesa, un'attesa famelica e malata, i suoi occhi scarlatti come fanali lo fissavano con impazienza, come un predatore fissa la sua preda messa all'angolo:
"Oh Caro, è il momento di concludere il nostro patto" il tono era mellifluo ed inquietante.
Quella presenza era Male puro, il conduttore non sapeva come era arrivato a quel punto, ma iniziava a capire: aveva stretto un accordo con quell'Ombra, l'aveva vista sgusciare dalla sua mente quel giorno in ospedale, tra le crepe della disperazione e della rabbia, lo scrutava con quei suoi occhi sulfurei. Poi un giorno aveva parlato: "un patto lo chiamava", la sua anima in cambio di tutto ciò che aveva perso ed il potere di piegare l'attenzione del pubblico a suo piacimento.
Pensò che era diventato pazzo a parlare con un ombra partorita dalla sua mente, ma avrebbe barattato qualunque cosa pur di vendicarsi per ciò che gli avevano tolto e riavere la sua voce, strinse l'accordo senza pensarci due volte.
Non avrebbe mai immaginato cosa poteva comportare: un piccolo passo alla volta quella voce oscura si insinuò nei suoi pensieri, l'ombra aveva fame e non bastava mai: all'inizio erano piccole stranezze come ridere davanti ad una sciagura altrui o mangiare carne cruda, ma poi le cose cominciarono a sfuggire al suo controllo quando iniziò a desiderare di infliggere dolore agli altri e nutrirsene. Più di una volta il pensiero di uccidere chi casualmente lo intralciava lo aveva sedotto, si era sempre trattenuto, ma stava perdendo man mano il controllo scivolando in quel baratro nel quale si era cacciato da solo.
Ed ora si trovava lì, non ricordava come ci era arrivato e cosa stava facendo davanti a quella vasca.
L'Entità doveva aver percepito il suo disorientamento, alle sue spalle sentì la sua presenza sovrastarlo gli enormi occhi cremisi si avvicinarono al suo orecchio:
"La parte della donzella disorientata non ti si addice " sussurrò divertito
"Hai fatto un ottimo lavoro, adesso mangia"
Senza che potesse rendersene conto le braccia si mossero da sole tremando, emersero dal pantano di sangue rivelando il coltello che aveva nella mano.
Cosa aveva fatto?
La mano prese a tremargli, la presa vacillò e si allentò, il coltello cadde nuovamente nella polla rossa.
Il conduttore radiofonico alzò lo sguardo sulla sua vittima: capelli corvini, una donna ormai matura ma dai lineamenti raffinati.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime
"Non posso" la voce era inudibile e gracchiante, l'acido l'aveva resa irriconoscibile.
"A questo punto credo tu non abbia scelta" canticchiò l'Ombra scoprendo un sorriso affilato.
Mosse una mano fatta di tenebra e nell'aria apparvero dei vèvè* incandescenti: dal nulla una catena della stessa energia si strinse al collo ed ai polsi dello speaker.
Ci fu un breve silenzio i simboli galleggiavano a mezz'aria nell'oscurità, il senso di oppressione era palpabile, i fanali scarlatti dell' Ombra si spalancarono pronti a divorare la loro preda:
"ED ORA MANGIA!"
Quelle catene impalpabili lo tenevano soggiogato, erano terribilmente pesanti, provò ad opporsi con tutte le forze che aveva in corpo, ma oramai non aveva più controllo sui suoi movimenti.
Da dietro gli occhiali mise a fuoco il viso della vittima che giaceva nella vasca, sgranò gli occhi in preda al terrore: davanti a lui sua madre era ormai priva di vita.
La sua sanità mentale andò in pezzi: l'unico affetto che aveva mai avuto, la sua famiglia, l'unica che nel 29 nonostante la crisi aveva creduto nel suo progetto alla radio.
Il viso della donna era coperto di capelli, il corpo esangue giaceva in una posa scomposta all'interno della vasca di porcellana.
Il giogo a cui era incatenato gli sollevò la mano, il sangue colò lungo i bordi bianchi della vasca rigandola di rosso.
Avvicinò il palmo al petto di sua madre, leggermente a sinistra: lentamente le dita si fecero largo con le unghie nella carne attraverso lo squarcio che aveva aperto con il coltello, in profondità, fino a stringerle il cuore.
La sua mente collassò
Le lacrime bruciavano.
Urlò ma le corde vocali ormai bruciate non risposero.
La mano si strinse e tirò forte, si sentì un rumore viscido e sordo di ossa frantumate, avvicinò alle labbra il cuore di sua madre.
Vide quella scena come proiettata lentamente su una pellicola in bianco e nero, come se fosse lo spettatore di quell'orrore. Doveva vomitare, scappare, abbracciare sua madre e rimettere tutto a posto.
Sentì i denti affondare nella carne cruda, umida, il sapore ferroso del sangue si appiccicava alla lingua.
Provò un conato di vomito.
Poi si ritrovò a leccarsi le dita con gusto.
L'ultima parte sana della sua anima urlò. Era andata
Le urla arrivarono alla gola, questa volta spinse fuori tutto il suo dolore, erano così strazianti e forti che gli squassarono il petto.
"Ora il patto è concluso, goditi la tua voce e.... tutto il resto"
l'Ombra fece un gesto plateale verso il macabro banchetto che stava consumando e poi svanì alle sue spalle schioccando le dita.
Adesso erano una cosa sola.
Alastor alzò la mano viscida di sangue e si accomodò gli occhiali sul naso, un bagliore rosso balenò nei suoi occhi, il suo viso era piegato in un sorriso innaturale.
" Non si è mai completamente vestiti senza un sorriso"
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Norman Mailer accoltella la moglie che lo accusava di non saper scrivere come Dostoevskij al grido di “Lasciatela morire, quella puttana!”, ed altre imprese del grande scrittore
Il 19 novembre 1960 Norman Mailer (nato Nachem Malech Mailer), all’epoca lanciatissima “giovane promessa” dell’intellighenzia americana, in particolare per il suo saggio di pochi anni prima The White Negro, con il quale trasformava il teppismo bohémien dei giovani bianchi annoiati in una sottocultura rivoluzionaria, decise di dare un ricevimento per lanciare la sua candidatura a sindaco di New York, nell’appartamento dell’Upper West Side che condivideva con la moglie Adele Morales (artista e critica letteraria di origine peruviana) e le due figlie.
Fresco di arresto per oltraggio a pubblico ufficiale (aveva cercato di fermare un’auto della polizia come se fosse un taxi) Mailer aveva fatto di tutto per assicurare il sostegno dell’establishment progressista della città a una “struttura di potere” che avrebbe portato avanti le battaglie delle minoranze (tra le quali, per l’appunto, i “negri bianchi” che tanto gli stavano a cuore): una commistione, quella tra élite e rivoluzionari, che rappresenta alla perfezione l’anima della sinistra occidentale sin dagli esordi.
Nonostante la defezione di qualche “filantropo” come David Rockefeller, al party di Mailer convogliarono circa 200 ospiti, tra i quali Allen Ginsberg, Norman Podhoretz (in seguitò uno dei principali rappresentanti del neoconservatorismo bushiano) e una masnada di “derelitti, tagliagole e bohémien” che lo scrittore aveva raccattato letteralmente dalla strada.
Dopo aver bevuto tutto il bevibile, l’enfant prodige della controcultura americana cominciò a litigare con gli ospiti, obbligandoli a mettersi ai lati opposti della stanza a seconda se fossero a favore o contro la sua candidatura, per poi scendere direttamente in strada a prendere a pugni i passanti.
Alle quattro di notte passate, una volta tornato nel suo appartamento con la camicia strappata e un occhio nero, e constatato che tutti gli invitati se ne fossero andati (ad eccezione di 5-6 persone), Mailer se la prese con la moglie, probabilmente anche lei alticcia, la quale lo aveva apostrofato con un Aja toro, aja! per poi chiamarlo “frocetto” [little faggot] e insinuare che la “lurida puttana della sua amante” gli avesse tagliato i cojones (sic).
Secondo altri testimoni, la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso sarebbe stata l’affermazione da parte della Morales che il marito non fosse bravo a scrivere come Dostoesvkij. Fatto sta che a un certo punto Mailer estrasse un temperino arrugginito dalla tasca e colpì la consorte alla schiena e al seno, perforandole il pericardio e mancando di pochissimo il cuore.
Ai presenti, scioccati per l’accaduto, Mailer intimò di “lasciar morire quella cagna” (o “quella puttana”, Let the bitch die). La donna venne prima condotta nell’appartamento al piano inferiore e poi all’ospedale universitario per un intervento d’urgenza.
Seppur in gravi condizioni, la Morales inizialmente disse ai medici di essere caduta su dei pezzi di vetro, ma due giorni dopo confessò alla polizia che era stato Mailer ad aggredirla; nel frattempo lo scrittore aveva fatto in tempo a rilasciare un’intervista televisiva al giornalista Mike Wallace, già programmata per promuovere la sua candidatura a sindaco, nella quale aveva sostenuto un’idea a lui particolarmente cara, cioè che il coltello rappresentasse per un criminale “la sua parola d’onore, la sua mascolinità”.
Quando la Morales ammise di esser stata colpita da Mailer, lo scrittore che in quel momento si trovava in ospedale venne subito arrestato. In seguito venne ricoverato per un paio di settimane in un istituto psichiatrico per una valutazione della sua sanità mentale, nonostante lo scrittore avesse implorato di non essere mandato con i pazzi poiché altrimenti “per il resto della mia vita le mie opere saranno considerate come frutto di una mente malata”.
A salvare la sua carriera, oltre che la clemenza dei giudici e la connivenza del milieu culturale newyorchese, fu probabilmente decisiva la scelta di Adele Morales di non sporgere denuncia in cambio del divorzio (ottenuto nel 1962). Mailer ne uscì praticamente indenne, e non solo dalla prospettiva penale, dal momento che i suoi amici “serrarono i ranghi” in sua difesa: il collega scrittore James Baldwin descrisse la sua “impresa” come un tentativo di liberarsi dalla “prigione spirituale che aveva creato con le sue fantasie politiche”, mentre il critico Lionel Trilling derubricò l’accaduto a “stratagemma dostoevskiano” messo in scena dallo stimato scrittore per “testare i limiti del male in se stesso”.
Qualche voce critica si sollevò dal fronte femminista: per esempio la scrittrice Kate Millett, proprio alla luce della violenza sulla moglie, tacciò l’intera opera di Mailer di legittimare il “sistema patriarcale”; tuttavia, quando Mailer si ricandidò a sindaco di New York nel 1969, le ideologhe Bella Abzug e Gloria Steinem lo sostennero con convinzione.
Le prime accuse di un certo rilievo sono giunte in tempi recenti, sia sulla scia delle memorie di Adele Morales (The Last Party, pubblicato nel 1997), sia con l’ascesa della cancel culture. Persino il “manifesto” di Mailer, The White Negro, è stato ridotto a espressione di esistenzialismo macho, ispirato a una concezione del maschile (anche in termini di aggressività e violenza) intrinsecamente positiva in quanto legato alla realtà e all’azione, e di conseguenza superiore al femminile, di contro schierato con l’artificiosità e il vaniloquio.
D’altro canto, per corroborare la sua candidatura a sindaco, Mailer abbozzò una lettera aperta a Fidel Castro nel quale biasimava che, a differenza di Cuba, negli Stati Uniti “troppi pochi colpi vengono sferrati alla carne. Qui siamo esperti nell’uccidere lo spirito, usiamo proiettili psichici e ci uccidiamo vicendevolmente cellula per cellula”. Se è probabile che annoverasse se stesso, in quanto intellettuale, tra i “carnefici dell’anima”, di certo ne includeva la compagna, le cui frecciate aveva definito come “una sequela di pugnalate psichiche” [psychic stabbings].
La mania per un certo tipo di mascolinità, declinata sempre in chiave progressista, emerge anche da uno dei punti più importanti del suo programma, con cui lo scrittore annunciava l’organizzazione di tornei cavallereschi in stile medievale a Central Park e corse di cavalli a Little Italy per contrastare la delinquenza giovanile.
Ad ogni modo, un parallelo più interessante è con il romanzo scritto dopo l’accoltellamento, Un sogno americano (1965) che racconta di uno stimato intellettuale e politico, Stephen Rojack, il quale in preda ai fumi dell’alcol uccide la moglie e poi si rifugia nei bassifondi di Manhattan dove, tra jazz club e puttane, scopre il valore liberatorio della violenza. Va osservato che al processo per l’accoltellamento della Morales l’avvocato di Mailer sostenne che il suo assistito avrebbe potuto “dare un contributo alla società” con il suo nuovo libro, che era appunto l’elogio letterario del suo gesto An American Dream…
.....
storia di fama, compagne, paraocchi e opportunismo...:-)
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